è un fotografo e regista svizzero naturalizzato statunitense. Nato in una famiglia di origini ebraiche, lascia l’Europa nel 1947 per trasferirsi negli Stati Uniti. A New York trova ingaggio come fotografo di moda per Harper’s Bazaar. Parallelamente alla fotografia di moda svolge una prolifica attività di reporter freelance che lo porta ad affrontare viaggi in Perù e Bolivia nel 1948 e in Europa nel 1949. Nel 1950 Frank ha già un nome ed Edward Steichen include alcune sue fotografie nella mostra 51 American Photographers allestita al Museum of Modern Art di New York, e poi nella celebre The Family of Man del 1955.
Tra il 1952 e il 1953 Frank decide di abbandonare definitivamente la fotografia di moda e comincia a lavorare sempre più seriamente come fotogiornalista. Nel 1955 è il primo fotografo europeo a ricevere la borsa di studio annuale promossa dalla Fondazione Guggenheim di New York. Con i soldi ricevuti viaggia per tutti gli Stati Uniti nel 1955-56, scattando 767 rullini, equivalenti a 27.612 immagini. Dopo una prima selezione di circa un migliaio di immagini, egli finisce per sceglierne, in un processo di scrematura lungo un anno e mezzo, soltanto 83 da mostrare al pubblico, ovvero solo lo 0,3% del totale. Questi numeri ci fanno comprendere allo stesso tempo la straordinaria curiosità di Frank ma anche la sua chiarezza d’intenti: doveva aver bene in mente l’idea finale che voleva trasmettere per aver saputo operare una selezione tanto radicale e asciutta. Nel 1958 Robert Delpire pubblica a Parigi Les Américains e l’anno dopo la Grove Press pubblica il volume negli Stati Uniti col titolo The Americans.
L’idea di un viaggio di questo tipo era venuta a Frank immediatamente, non appena aveva messo piede negli Stati Uniti per la prima volta, otto anni prima: una volta ottenuto il finanziamento del Guggenheim egli fu libero di fare esattamente ciò che preferiva. Questo non significa che non incontrasse degli imprevisti e degli inconvenienti: in quanto straniero che scorrazzava qua e là non poteva non destare sospetti nell’America immersa nella paranoia della minaccia comunista e della Guerra Fredda. In Arkansas, ad esempio, fu fermato dalla polizia e trattenuto svariate ore in prigione senza altro apparente motivo se non per il fatto che non aveva un accento di quelle parti e che guidava un’auto antiquata. In effetti, se ci si pensa un attimo, in un certo Frank era proprio una spia estera, anche se certamente non malintenzionata.
Il libro di Frank mostra l’America in tutte le sue sfaccettature, restituendone un’immagine molto distante da quella propagandata dal discorso ideologico del dopoguerra americano: il paese di Frank è insomma ben lungi dall’essere la terra dell’American Dream. La sua street photography d’altronde si emancipa nettamente dal legame col solo spazio urbano e conduce la sua investigazione della vita quotidiana statunitense seguendo il percorso delle autostrade e delle strade sterrate di ogni angolo della nazione. Se il pubblico dell’epoca poteva essere relativamente abituato alla crudezza delle immagini del contesto metropolitano, assai più inusitato era invece produrre un’immagine tanto disincantata dell’America suburbana, provinciale e rurale. In questi scatti il ventre profondo del paese, invece di farsi depositario dei sani valori patriottici, è anch’esso luogo di disagio, sofferenza e disuguaglianze.
L’importanza dell’opera di Frank sta, ancor prima di qualsiasi discorso stilistico-estetico, nella scelta stessa di guardare a una realtà che generalmente non veniva inquadrata. “Ero stanco del romanticismo”, affermerà poi Frank in un’intervista, “volevo presentare ciò che vedevo, puro e semplice”. D’altronde già nella domanda di partecipazione per ottenere il finanziamento del progetto egli descrive così l’America che vuole raccontare: “Parlo di cose che sono… dovunque – facili da trovare, ma non facili da selezionare e interpretare… Una cittadina di notte, un archeggio, un supermarket, la pubblicità sull’autostrada, le luci al neon, le facce dei leaders e quelle dei seguaci, pompe di benzina, uffici postali e cortili”.
La visione che proponeva dell’America venne allora recepita senza mezzi termini come un attacco frontale da parte di un europeo all’ottimismo dettato dall’establishment. Frank venne tacciato di antiamericanismo e di simpatie verso un’ideologia di sinistra, quando non d’incompetenza: riviste come la diffusissima Popular Photography stroncarono le sue fotografie, stigmatizzando come imperdonabili carenze (“sfocatura senza senso, esposizioni fangose, orizzonti ubriachi e sciatteria generale”) quelle che invece erano scelte linguistiche innovative alquanto coraggiose.
Dopo la straordinaria esperienza di The Americans, Frank abbandonerà a lungo la fotografia, preferendo dedicarsi al cinema: nel 1959 egli infatti realizza la sua più nota collaborazione con i membri della Beat Generation, dirigendo insieme al pittore Alfred Leslie il primo di numerosi film.
Pull My Daisy, scritto e narrato da Jack Kerouac e interpretato, tra gli altri, da Allen Ginsberg e Gregory Corso, il film sarà considerato il padre del cinema d’avanguardia statunitense noto come New American Cinema.
Soltanto dopo la tragica perdita alla metà degli anni settanta della figlia Andrea, appena ventenne, Frank ricomincerà a riutilizzare la macchina fotografica, ma la sua produzione sarà molto lontana da quella precedente: usa collage, vecchie fotografie, fotogrammi, polaroid; scrive, graffia e incide direttamente sul lato sensibile della pellicola. Insomma, anziché guardare al mondo, egli rilavora materiali pre-esistenti in direzione di una riflessione metalinguistica. D’altronde la sua lucidità di sguardo si era già esercitata con tale pienezza e tale rigore nel lavoro della metà degli anni cinquanta che questo sviluppo non risulta in fondo sorprendente. The Americans garantirà comunque per sempre a Frank un posto di assoluto rilievo nella storia della fotografia.
Scarica il Libro di Robert Frank – The Amercans – 1958
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